FOFO, il giro del mondo fatto male e di fretta

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Prima parte: Città del Messico, Toronto, Chicago.

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Antefatto veloce: tra la fine della registrazione dello speciale Sanremo de “I Ferragnez” e l’inizio delle dirette de “L’isola dei famosi” e la fine senza scossoni e dopo parecchi anni della storia col mio amabile fidanzato ho pensato, ricordando una frase di “Parigi o Cara” detta da Delia e cioè Franca Valeri: “Che dici, un viaggetto me farebbe bbene?”, di simulare sul sito di una nota alleanza di compagnie aeree un giro del mondo. Con mio stupore scopro che questo giro, forse perché pianificato con largo anticipo, costa molto ma molto meno di quello che potessi mai sperare e siccome lo stesso biglietto prevedeva un rimborso totale in caso di rinuncia, l’ho comprato. Più di 36.000 km da percorrere, tutte città che non conosco tranne le ultime due, con la certezza di sfuggire a tutte le FOMO estive e anzi intraprendere questo viaggione in solitaria all’insegna del suo contrario e cioè della FOFO, che è esattamente quello che mi prefiggo: avere come mantra la Fear Of Finding Out, arrivare nelle città e fare quello che mi càpita, non pianificare bene niente tranne gli alberghi, terrorizzato da qualsiasi aspettativa mancata di epifanie e simbolismi da Grand Tour. Quindi, fatta la mia solita valigia sbagliata, il 3 agosto dopo una breve sosta a Francoforte dove mi hanno regalato una deliziosa paperella di plastica grigia, sono atterrato a Città del Messico. Nella mia valigia sbagliata una grande parte è appannaggio delle medicine, posso ammalarmi in scioltezza di varie patologie ma, essendo una valigia sbagliata, naturalmente mi sono dimenticato di portarmi l’unica cosa che mi sarebbe servita lì e cioè dei diuretici, dimenticandomi assolutamente che Città del Messico è a 2400 metri di altezza e avrei dovuto proprio portarli: a un certo punto il respiro un po’ ti manca e sopraggiungono anche dei micro giramenti di testa, quindi sono andato a farmi misurare la pressione e avevo una notevole 105 di minima, quindi bisogna pisciare tanto per farla scendere subito. Concluso il piccolo fuori-onda ipocondriaco, la città: caruccia, fresca perché fa caldo in aprile e maggio ma, forse sentendosi europei, i messicani chiudono le scuole e fanno le vacanze ad agosto quando ci sono un 18 gradi di media e piove spesso, boh cazzi loro. Il mio albergo era a Condesa, che insieme a Polanco e a Roma, è un quartiere “sicuro”. Io che ero venuto in questa metropoli per andare ad accendere un cero e fare dei salamelecchi e offerte genuflesso alla Santa Muerte, divinità di origine pre-colombiana che pare prometta successi, trionfi e fortune a chi la omaggi, me la sono presa in saccoccia, perché il suo principale luogo di culto si trova nel quartiere di Tepito dove pare se ti va bene questi malviventi che vivono lì come minimo ti scorticano vivo e insomma mi hanno detto che proprio non ci dovevo metter piede, peccato, e tutto sommato anche meglio ché pare che se sei poco convinto o non hai davvero bisogno, la Santa Muerte pare si arrabbi parecchio ed essendo pre-colombiana gli anatemi hanno come dire una certa tradizione d’efficacia. Sono passato per Zócalo, la piazza principale della città, molto grande, preda di turisti sudata agitati e attualmente tutta transennata perché manifestano a nastro per svariate cose ogni giorno, piena di polizia e quindi anche se bella nella sua enormità e con una cattedrale notevolissima del sedicesimo secolo I rather don’t do transenne: sono in vacanza. Ho visitato l’imponentissimo Museo Nacional de Antropología che è di fatto un biglietto da visita dell’orgoglio azteco, urlato in apoteosi di supremazie razziali preistoriche con questi Dei spaventosi che pretendono ogni due per tre sacrifici di sangue con mutilazioni e altre torture varie ché sarò pure ignorante ma non mi interessa per niente, trovo più interessante il volantino delle offerte dell’Esselunga per dire. Diciamo molto meglio il Museo Jumex che è a Polanco dove c’è dell’arte contemporanea di livello e ci ho beccato infatti una retrospettiva di Kounellis, “Yannis Kounellis in six acts”, un’esposizione che assembra più di 40 sue opere tutte insieme, veramente da perdere la testa. Di fronte al Museo Jumex ho subìto però due pagliacciate: la prima è il Museo Soumaya voluto dal plurimiliardario messicano Carlos Slim per omaggiare la moglie defunta, progettato da Frank Gehry e Fernando Romero e che ricorda dei Guggenheim a caso e dentro ci sono delle cagate mega galattiche, tipo delle riproduzioni del David e la Pietà di Michelangelo oversize, oltre a delle croste di tutte le epoche, forse esagero ma ci vado vicino. La seconda pagliacciata è che uscendo da Kounellis si è materializzato di fronte a me un multisala dove da lì a cinque minuti iniziava la proiezione di “Barbie” che non avevo ancora visto e ho pensato che dopo aver goduto dell’alto di Kounellis potessi scendere nel Pop della Gerwig e quindi sono entrato. Insomma, non ce l’ho fatta e dopo poco più di metà ho abbandonato, non me ne frega un cazzo della poetica woke applicata al vinile della bambola, anzi mi ha dato proprio fastidio. Parentesi, sto per dire una cosa forte: ma quanto è cessa Ryan Gosling? Oltre al fatto che a me sembra Stanlio di Stanlio e Ollio, non capisco proprio tutte ste tracimazioni vaginali da cosa siano scatenate, forse sbaglio ma per me i boni sono altri, fine parentesi. Dopo un volo di quattro ore e mezza sono atterrato a Toronto: bella, bellissima, bella fisica. Non è grande, non è piccola, è molto pulita, pur respirando aria di Stati Uniti non hai mai la sensazione di trovarti per qualche ragione in pericolo e infatti sulla metro trovi dei ragazzini di 7/8 anni che viaggiano da soli e per strada a mezzanotte incontri delle diciottenni che camminano in hot pans in scioltezza e senza preoccuparsi di girarsi per controllare se qualche malcapitato le segua. Per strada gente gentile cammina col sorriso in bocca o è seduta nelle tantissime panchine disseminate per ogni dove, la città è insomma accogliente, è gentile, e niente ben dispone come la gentilezza. Si trovano moltissimi negozi in ogni quartiere specializzati nella vendita di marijuana e infatti se ne respira l’odore ovunque. Certo, hanno questa forma nervosa del bilinguismo e parlano un francese impossibile e ridicolo, la pronuncia somiglia molto a una calata fra San Benedetto del Tronto e Avezzano, ma li si perdona. Chi proprio non si perdona sono i turisti che ho incrociato a Chicago, città che mi è parsa elegantissima nei suoi diversi livelli di architetture rigorose nella loro classicità, imponenza, bellezza, importanza dei Musei e vastità di parchi cittadini. Evidentemente tutta questa chiccheria è apprezzata anche da orde di elettori di Trump del midwest che amano venire qua d’estate e si muovono in gruppi veramente molesti, perché hanno andature che un algoritmo non saprebbe calcolare e soprattutto urlano che a confronto noi italiani sembriamo figli di Lord Mountbatten e sono “Loud” in generale, da come si vestono veramente di merda, a come mangiano, a come gesticolano. Le donne poi sono di una bruttezza assoluta, non ho visto una bella donna per giorni, scorgi nei loro visi un brivido durato al massimo tre mesi di bellezza del somaro che poi si è dissolta nel matrimonio e forse nell’abuso di coupon da “Target” che le ha fatte inquartare, immusonire, sgraziare, imbarbarire. I loro mariti in qualche modo reggono il colpo, loro no, e ai loro figli tarantolati da deficit dell’attenzione gli vorresti dare dei ceffoni perché t’inciampano addosso, ti pestano, ti spingono. Notata anche una forte compagine nera composta da tantissime Lizzo che non ce l’hanno fatta e che si vestono come drag queen hardcore, quindi molta lycra sudata, metri di ciglia finte che camminano sfidanti in dei loro dissing immaginari con il mondo ma che non sono più spiritose perché Holly Woodlawn lo faceva nel 1970, quindi non si ride ma si sbadiglia. Come dicevo: l’estate è la più burina delle stagioni cara Conchita.