FOFO PARTE SECONDA: il giro del mondo in fretta e male!

1311

Scusate il ritardo: dopo Città del Messico, Toronto e Chicago ecco Seattle, Tokyo e forse anche Mykonos

ascolta su Spotify ascolta su Apple Podcast

Dopo il cafonissimo Hotel Andaz a Città del Messico, l’elegante Park Hyatt di Toronto e l’orrendo Radisson Blu a Chicago decido di accordarmi allo spirito nerd con un ruttino di ricordo grunge e scendo all’Ace Hotel di Seattle, albergo capostipite di una catena per l’appunto fintamente low profile, arredamento essenziale ma caro per lo meno come un quattro stelle plus e che si trova nella zona di Belltown, quindi in teoria tutto giusto. Il “Fàmolo cool” prevede che in più della metà delle stanze non ci sia il cesso, no ascensori, il che non sarebbe un problema di per sé dato che è una palazzina di due piani in mattoncini, ma non capisco perché non sia stato ancora chiuso dalla ballotta woke delle carrozzelle, forse perché alla voce Diversity può contare su un delizioso personale che comprende tra gli altri un orsone burbero ma bonario, una vecchia ebrea in dieta keto alla concierge e una trans hispanica dal nome Sheila alla pulizia delle stanze. Bene. Dopo essermi arrampicato nella steepness della scalinata che ti si presenta all’ingresso e che devi fare obbligatoriamente per raggiungere la reception, vengo accompagnato alla stanza con bagno che ho prenotato ed è assolutamente caruccia, ha tutto al posto giusto tranne una cosa fondamentale non solo per me che sono un cagacazzi professionale ma credo lo sia per chiunque: la camera ha sì il cesso ma manca completamente di finestre. Inghiotto, respiro e poi dico: ma è senza finestre! Chi mi accompagna minimizza e ha il coraggio di dirmi che a molti clienti piace perché per loro, dice, ha un effetto culla molto rilassante. Io sgrano gli occhi e dico che stanotte per questo grave disservizio dovrò ingurgitare doppia dose di Minias per dormire. Sarà forse perché ho sgranato gli occhi come Bette Davis nella sequenza iniziale di “Ombre Malesi”, la receptionist si fa scappare che forse dal giorno dopo potrebbe darmi una camera sia col cesso che con la finestra. Il suo “forse” è cambiato in certezza dopo essermi consultato col mio amico Cristiano super avvocato di law firm che mi ha suggerito di andare a ribattere con fermezza gentile la problematica alla reception, usando più volte la parola magica “unacceptable” che in avvocatese in America apre varchi di luce perché evoca il terrore di provvedimenti ad ampio spettro che vanno da una stella su tripadvisor alla class action. Fatto il trasloco, via di corsa con degli Uber e dei monopattini elettrici in giro per la piccola città, poche cose da vedere nessuna davvero notevole a partire dal Saint Lawrence market, una Porta Portese gastronomica sul lungomare dove capisci che ci sono solo turisti a fare delle file per mangiare dello streetfood anche buono ma il clam chowder per esempio è immangiabile perché ci sono trenta gradi e non ti viene proprio voglia, semmai a novembre. Capisco subito che le lesbiche di Seattle sono stupende per la loro propensione nel mostrare tutte polpacci notevoli e tatuati che ostentano mentre sfrecciano con le loro biciclette da professioniste e me ne rallegro. Altra cosa che capisco è che nell’arte contemporanea sentiremo parlare di Amoako Boafo, un pittore figurativo ghanese molto paraculo la cui personale è ospitata al Seattle Art Museum e il piccolo ma delizioso Frye Art Museum ne ha recentemente acquistato delle opere. Chiamo una mia amica importante ad Art Basel che me lo conferma.

Siccome di base sono Polyanna mi sono accorto solo il penultimo giorno di permanenza che Seattle come San Francisco e poi Portland ha un serio problema di homeless drogati molto molesti. Ci ho fatto caso per caso e cioè in occasione di una visita in un mall di lusso a Downtown: la mia amica Ayumi da Tokyo mi chiede di comprarle un certo profumo di Clinique che si trova solo in America e stavo per l’appunto varcando l’ingresso di questo grande magazzino preceduto da una chic con scarpe basse che camminava con la sua bambina quando all’improvviso inchioda, stringe la mano a sua figlia e fa un dietrofront immediato scontrandosi con me che già stavo per mandarla affanculo ma al tempo stesso mi chiedevo il perché di questo cambio di direzione così repentino. Di fronte a me una scena davvero rubata da “The walking dead”: una quarantenne vestita di stracci con passo zombie urlava frasi incomprensibili venendomi incontro buttando per terra tutto quello che trovava sugli scaffali a portata di mano, attorno a lei clienti e personale immobili, non uno straccio di guardia giurata che la fermasse. Inchiodo come la chic con la pupa di prima e faccio lo stesso dietrofront con la piccola differenza che la zombie ormai mi era a trenta centimetri e decide di seguirmi in strada continuando a urlare come un’ossessa. Siccome non avevo a portata di mano un Uzi decido di allungare il passo, ma lei nonostante barcollasse regge il ritmo. Dopo un blocco e mezzo di ‘sta scena senza senso inchiodo un’altra volta mi giro e le dico a bassa voce guardandola negli occhi e in romano: “Hai finito de rompeme i cojoni?”. Lei rimane interdetta sia per la lingua e forse anche per la calma. Ad aiutarmi un altro homeless che seduto per terra fuma un mozzicone che la pazza punta e glielo sfila di bocca e cominciano a litigare. Dopo due secondi di autostima come fossi scampato a un attacco mortale in “The last of us”, sono rientrato nel mall e niente, il profumo non ce l’avevano. Andando in giro ne ho poi beccati parecchi in preda al Fentanyl e Oxicontin e chissà che altro, vanno in giro soprattutto a gruppi e in genere in centro città per cercare di tirare qualche sòla ai turisti inseguendoli urlando. Non è per niente un bel vedere, è decisamente triste. Pensavo che Seattle essendo a Nord ne fosse indenne, ma faceva un cazzo di cambiamento climatico, quindi con tutta probabilità arriveranno presto in Alaska. Archiviata Seattle, dopo 9 ore passate nel sogno di viaggiare All Nippon Airways, sono atterrato ad Haneda, il mio aeroporto preferito e ho capito subito che aver avuto l’opportunità lo scorso ottobre di andare a Tokyo con un visto speciale prima che il lockdown fosse tolto in Giappone è stato memorabile e indimenticabile: Tokyo è il mio posto del cuore per tanti motivi sentimentali e malinconici che non sto qui a spiattellare nonostante lentamente ma inesorabilmente stia cambiando. Le prime volte che ci sono stato ma anche lo scorso ottobre, dove era rarissimo incontrare una faccia caucasica, c’era quel senso di fantastico disorientamento , ci si sentiva davvero persi in traduzioni e modi di vita, uno straniamento davvero culturale che colpiva tutti i sensi e al tempo stesso faceva sentire protetti, coccolati, rispettati. Negli anni tutto è diverso e globalizzato nel poter facilmente districarsi in scioltezza con un router o una sim virtuale in insegne da leggere, percorsi da intraprendere, comunicazioni da sostenere con l’aggravante dell’invasione dei turisti newcomer che ti scacchiano il sogno di trovarti nell’altrove anche se si circoscrivono perlopiù a Shibuya, Shinjuku, Ginza, Asakusa, Tsukiji. A questo si aggiunge un disattento equivoco etnocentrico per il quale a prima vista pensi che insomma sti giapponesi non sono così educati, silenziosi, rispettosi delle file e timidi come ce li hanno disegnati perché se ne vedono in giro di caciaroni vestiti a cazzo che ti sorpassano urlando e strattonandoti, buttando per terra cibo e fumando mentre camminano che è considerato in Giappone un assoluto peccato mortale. C’è solo un piccolo particolare che non si comprende a prima vista e che vi svelo immediatamente: sono cinesi. I giapponesi senza giri di parole li odiano che in confronto Meloni coi migranti è Karola Rakete. Li odiano ma inghiottono, un po’ per la loro educazione che non prevede di scendere a piani di scontro diretto, un po’ perché anche se non spendono tantissimo i cinesi sono tantissimi e quindi alla fine lasciano in suolo nipponico miliardi di Yen. Tanto vale frequentare Azabu dove ci sono sì stranieri ma tutti residenti quindi mai molesti, Hiro-o, Ebisu, o ancora meglio nascondersi a Shimokitazawa o Kijijoji o andarsi a fare delle gitarelle fuori porta a Chiba dove ci sono un sacco di posti sconosciutissimi e belli o buffi dove si mangia bene con poco, sempre se si ha una macchina e un’amica giapponese che ti ci porta. A questo punto vi risparmio i miei denti avvelenati per un mucchio di ragioni sull’isola di Mykonos, ultima tappa del mio giro del mondo un po’ sbilenco ma tutto sommato appagante, mi accorgo che è già ottobre e non nemmeno compilato l’oroscopo del mese. A presto.