Capire da un piccolo ma fondamentale indicatore che il paese reale è più in forma smagliante che mai

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La domenica di pasqua mi sono svegliato a Brescia, sono andato a prendere delle paste da “Zilioli” e poi ho raggiunto Milano per andare a pranzo da amici molto cari che avevano preparato il capretto al forno. Vado con piacere in quella casa perché sono pazzo della loro figlia adolescente che sfinisco di domande a raffica alle quali lei risponde puntuale, credo di starle un po’ simpatico e un po’ perché ha ricevuto un’educazione per la quale è previsto in presenza di anziani il cagarseli. Ma domenica era anche meglio perché c’era anche sua cugina, stessa età ma liceo diverso e mi sono messo subito in assetto controllo incrociato, quindi felice.

Prima di tutto la musica: ascoltano Geolier e Tedua, ma come Tedua dico io. Tedua. Attenzione non ho niente contro Tedua, pensavo semplicemente che avendo iniziato a pubblicare pezzi già da tempo, fosse già dimenticato come i millemila one season wonder che si perdono sulla strada di Spotify. Una di loro due addirittura mi cita Granmaster Flash, ma qua sorge il dubbio che non le piaccia davvero, è come quando da ragazzini citavamo per darci importanza, o almeno io citavo, i Jetrho Tull o Emerson Lake and Palmer ma in realtà ascoltavo volentieri due mani fredde sulle tue bianche colombe dell’addio, che giorno triste questo mio, oggi tu ti liberi di me, di me che sono tanto fragile e senza te mi perderò. Chiedo: “Ma Elodie?”. Mi guardano e stanno zitte. Educate nel non dirmi: “Ma guarda ‘sto coglione che pensa che ascoltiamo Elodie”. Mi citano brevemente Marracash più per dovere che altro, poi altri nomi mai sentiti e abbiamo esperito l’argomento musica.

“Quanti gay ci sono a scuola?”, chiedo. “Nessuno” mi rispondono. “Ma come nessuno?”, “Nessuno”. Hanno diciassette anni, vanno in dei licei dentro la cerchia dei bastioni, in quella zona centrale cittadina dove si vota a sinistra e la lega fa orrore, l’enclave del corretto e dei diritti, del bio e delle biciclette e dello yoga quindi penso che sia impossibile che non ci siano froci. “Cioè non avete mai visto due ragazzi mano nella mano o che si danno un bacetto?”, loro rispondono con sicurezza di no. Poi mi dicono che certo che ci sono, solo che sono nascosti. Un po’ mi turbo al pensare che niente è cambiato da quando ci andavo io al liceo e che tutte quelle frasi rassicuranti che narrano un’Italia moderna antireazionaria e non giudicante verso le diversità ok magari nell’entroterra calabro ancora no, ma in centro città sì. Col cazzo. Poi mi ricordo che per l’appunto abbiamo il governo che abbiamo e che quindi qualcuno l’avrà votato. Vado avanti. Dico: “Ah quindi froci no, lesbiche immagino manco a parlarne!”. E loro mi smentiscono donandomi un’immagine terrificante: “Ragazze che si baciano sì, le ho viste un po’ di volte ma più che altro lo fanno per flexare”, mi dice una delle due con l’altra che fa sì con la testa. Per gli ottantenni rinchiusi nelle caverne in ascolto “flexare” vuol dire “ostentare”, cioè le ragazze si baciano per darsi un tono trasgressivo e soprattutto a favore di ragazzi e quindi non sto a tirarvi su una pippa sui danni del patriarcato e della Chiesa ma è come se ve l’avessi fatta. Froci no e donne che si fingono lelle per arrazzare i ragazzi sì, proprio come nei pornazzi dove due se la leccano per innescare nel maschio la fantasia di trovarsi in mezzo. E quindi mi sorge il dubbio che gran parte di quell’astensionismo deluso dalla politica che correrebbe a votare se cambiassero le cose non esista e che si astenga perché nulla cambi in questo perenne status quo di facciate e sentimenti nascosti così reali. Sono tornato a casa un po’ depresso e ho ruttato l’abbacchio per un po’.

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