I am small, it’s the picture that got big!

987

Il paradosso di Gloria Swanson, la proliferazione di nani giganti del web e il silenzio assordante verso una certa sinistra.

Ascolta su Spotify Ascolta su Apple Podcast

Gloria Swanson interpreta Norma Desmond in “Sunset Boulevard” (1950)

Tutto potrebbe essere riassunto con un aneddoto crudo ma efficace: narra la leggenda che un apprezzato regista televisivo per impedire a un’autrice che insisteva nell’inserire un contenuto solo leggermente sofisticato all’interno di un programma, usò la seguente considerazione sulla comprensione: “No, non si può fare: ricordati che ci vede anche gente che caga ancora dalla finestra”. Con questo quadretto medievale potrei anche aver sintetizzato quello vorrei scrivere adesso, vado lo stesso avanti . Per chi è nato in questo secolo “Sunset Boulevard”, ovvero “Viale del tramonto”, non dice nulla, fa niente mi sbrigo in due secondi cercando di non annoiare chi invece lo conosce bene. E’ un film di genere noir che racconta il dramma di un’attrice nel passaggio dal cinema muto al sonoro e dal grande al piccolo schermo, una sceneggiatura impeccabile che regala ai posteri due frasi celebri: la prima è “I AAM BIG IT’S THE PICTURE THAT GOT SMAALL!”, “Io sono grande, è lo schermo che si è rimpicciolito!” e “Mr deMille: I’m ready for my close-up!”, “Mr deMille (che era un grandissimo regista), sono pronta per il mio primo piano!”. Se grazie al selfie e in generale al pazzo parossismo compulsivo di mostrarsi di continuo rende ancora valido dopo 73 anni dalla uscita del film l’essere sempre pronti – anche senza ore di trucco ma servendosi di un filtro – all’ostentazione del primo piano, al contrario l'”I am big it’s the Picture that got small” va riformulato in maniera speculare: non è più “sono grande e lo schermo che si è rimpicciolito” ma esattamente il contrario e cioè sono piccolo perché lo schermo è enorme o per meglio dire si è moltiplicato in un numero molto preciso e cioè quello tendente all’infinito, in parole povere c’è spazio per tutti, anche per quelli che cagano ancora dalla finestra. Riempire questo spazio infinito con delle piccolissime unità che si autodeterminano nell’intento di appiattire ogni cosa in un’offerta quasi sempre sciatta o ridicola per finta o per davvero – quasi sempre di dubbia qualità e sempre a novanta – a captare i canoni che possano piacere a un algoritmo capace di moltiplicarne l’esposizione. Tutti caduti nel trappolone del “Recità. che cce vo’ a Recità?!”, altra citazione da film, nella fattispecie di Anna Magnani popolana allo specchio in “Bellissima” di Visconti che sottostima il talento o lo studio in generale che serve quando ci si espone al giudizio degli altri. Al tempo stesso s’ingenera un mercato oppositivo: ecco pronti plotoni d’esecuzione sommari che durano sì il tempo di una scureggia ma purtroppo si avvicendano implacabili contro le esternazioni o i comportamenti discutibili esposti nel mondo delle piattaforme digitali, dei tiri al piccione con piglio manicheo acchiappa consenso, basti solo pensare alla sceriffa di Civitavecchia Selvaggia Lucarelli che giornalmente ci spiega cosa nel mondo è giusto ma soprattutto sbagliato. Per carità, anche stigmatizzare a pagamento è un lavoro, trovo però noiosissimo indignarsi per i vaniloqui chessò sul diritto al riposo di Giorgia Soleri dopo un weekendino a Ibiza, diritto probabilmente ribadito come trappola per moltiplicare la propria esposizione, vi ricordo che non esiste in natura pubblicità negativa. Quando per esempio vengo informato che l’influencer Paolo Stella, arbitro di un gusto non proprio old money che attira degli emigrati aspirazionali post “Rocco e i suoi fratelli” più che dei nipoti di Giulia Maria Crespi, ha degli inserzionisti che gli permettono di cambiare completamente l’arredamento di casa ogni sei mesi, non provoca certo in me invidia quanto l’ansia nel pensare di vivere in uno show room e l’immagine mentale di Renzo Mongiardino che si dimena nel suo feretro. Indignarsi per i sansebastianesimi inquisitori sul prezzo dei broccoletti alla curcuma di Jonathan Bazzi ad alimentare non tanto il suo veganesimo quanto il ribadire la sua shoah di vittima assoluta mi sembra davvero esagerato, come anche innalzare a eroina della carbonara con l’uovo un po’ cotto che tanto è buona lo stesso Benedetta Rossi contro gli aristochef va benissimo, a patto che poi ve la mangiate voi quella carbonara. Fatti i doverosi distinguo, cosa hanno in comune Soleri, Stella, Bazzi, Rossi e millemila altri? E’ semplice: sono decisamente in parte. Si può chiamare carattere in tutti i significati possibili, cifra, segno distintivo, Credo. E’ il loro racconto, o come si dice purtroppo da qualche tempo, il loro storytelling che li ha resi famosi o tendenti alla fama e là sono saldamenti ancorati e per questo riconoscibili, come il caschetto della Carrà insomma. Va da sé che indignarsi o dare più importanza del dovuto a chi è in parte è un esercizio faticosissimo che a me particolarmente toglie le forze. E’ esattamente come prendersela con Norma Desmond di “Viale del tramonto”, non ha senso. Allo stesso tempo, da un’altra parte e precisamente verso sinistra, si tende a tacere della propria compagnia di giro, guai ad alzare un sopracciglio sull’ultimo lavoro di Saviano o Jovanotti, in certe esternazioni di Beppe Sala o nelle scelte cromatiche della Schlein, nell’equivoco che anche nel più piccolo dei mugugni si favorisca il pensiero conservatore magari anche fascista. Mettere il cazzo sul tavolo sui narcisismi di turno dell’internet è contemplato, sul convenzionalmente corretto meno, dovrebbe essere invece davvero preso in considerazione, soprattutto usando strumenti come la derisione più che l’attacco frontale, il cinismo più che la violenza verbale, l’indifferenza sul fuoco fatuo di un tweet più che l’indignazione ad ogni piccola virgola di tutti i nani giganti del web. Che poi è la ragione per la quale nonostante i ratti e la Raggi, Roma sia ancora in piedi: vi ricordo che quando moltissimi vivevano ancora nelle caverne a Roma esistevano già i froci.