Ogni ricco, tranne il capostipite, può scegliere la tragedia che gli pare

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Una considerazione sul finale di “Succession” scritta fashionably late a causa di un pronto soccorso.

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Credetemi: non volevo fare la figa di Parigi e sciorinare finte arguzie per ultimo. E’ che son finito all’ospedale e sono reduce da dei dolori paleocristiani per fortuna in via d’estinzione. In realtà quel che voglio dire è laterale alla più bella serie di questo millennio, diciamo che è un cavallo di battaglia personale che ricordo spesso a me stesso e che ora condivido. Sul finale di Succession date per scontati tutti quei paroloni e stracciamento di vesti e morte di cigni e paragoni impossibili ma plausibili che avete già letto ovunque e quindi qua non ci sarà nessun smacchiamento giaguari, vado dritto al dunque.

Tutti i ricchi, e parlo di quelli veramente ricchi, vivono verso la fine della loro vita lo stesso risentimento poco dichiarato, più o meno ammesso a loro stessi e che a parer mio è spiegabilissimo con questa semplice e disarmante considerazione: gli rode il culo di morire. La corsa verso l’accumulo di denari e di potere per stordirsi e distrarsi dal conto alla rovescia per loro è particolarmente devastante e la sublimazione verso l’asse economico ereditario o il lascito morale con fondazioni e monumenti e commemorazioni e musei e piazze e giardini e ale d’ospedali e di biblioteche va da sé che non basterà. E’ il furore di chi si è conquistato tutte le vette di potere cercando di scacciare il pensiero del decadimento definitivo e inarrestabile delle carni. Beninteso, sto parlando di quelli che se la sono conquistata davvero e cioè da zero, non quindi chessò l’avvocato Agnelli, jetsetter squisito che di fatto non sarebbe mai stato il nonno Giovanni e che aveva a disposizione tutti i Valletta e i Romiti del caso a pulirgli i vetri. Il patentino “posso permettermi di farmi rodere il culo” ce l’ha senz’altro Logan Roy che in quattro stagioni non è incerto su quale dei tre figli – il quarto non conta – abbia le carte giuste per succedergli, non gliene frega un’emerita mazza, non è interessato all’illusione che sia importante che il suo impero continui dopo di lui e infatti il rumore sordo della sua rabbia ritma ogni episodio di tutte le stagioni. La seconda generazione è la più colpita perché deve sopportare il ricordo di chi ha fatto e la consapevolezza di non potercela fare, la terza si gode i frutti senza tanti sensi di colpa e con la quarta in genere il benessere finalmente si estingue, raramente l’estrema ricchezza sopravvive a una quinta o sesta generazione. E’ la sindrome dei Buddenbrook con la sua parabola decadente a raccontarcelo, mica io. Peggio mi sento se il capostipite che ha accumulato immense fortune sia un artista: là è quasi matematico che tutto decada alla seconda generazione, molti eredi si sentono legittimati a giustificare vite scellerate con sperpero di denaro non guadagnato e narcotici acquistati diagnosticandosi noiosissime sindromi e nevrosi da “figli di”, dove i più fortunati camperanno di real estate e azioni ben manipolate da qualche advisor onesto. E venendo alla seconda generazione in questione cioè quella di “Succession”, Shiv ha dichiarato con quella mano poggiata la tragedia che si è scelta, per quelle di Kendall e Roman basta tirare i dadi, qualunque è valida. Mai essere troppo belli, troppo alti, troppo ricchi.