Milano, la birra e quel sapore di figa appassita

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La disfatta della birra industriale presso i ristoratori che si danno un tono

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Non mi metto, ultimo fra gli ultimi, a disquisire e lamentarmi di Milano. Da romano, non ho mai detto che la migliore cosa di Milano è il treno per Roma prima, figurarsi ora che se devo scegliere fra una rumena notabilissima a causa dei finti Fendi che indossa mentre tenta di borseggiarmi che per inciso non uso Kelly e il portafoglio lo metto nella tasca davanti dei jeans per far finta d’esser contento di vederla, e la vista di un gabbiano che inghiotte dei ratti mentre la mia colonna vertebrale sussulta sui sanpietrini, opto con sicurezza per la prima, magari è anche parente di Elena Ceaușescu, nata Lenuța Petrescu, vai a sapere. A Roma è rimasta per scaramanzia la banca nella quale è acceso il mio conto, gli amici sanno che non ci vado volentieri e tanto anche quelli di Milano non li vedo mai e se li vedo andiamo a cena alle sette e mezza come delle checche di Zurigo e siamo contentissimi d’essere a casa per le nove e venti. Miracolosamente sto scomparendo dalle mailing list di prime, vernici, eventi e cocktail, hanno smesso di invitarmi perché non ci metto piede da vent’anni ed è il motivo per il quale io a Milano ci sto benissimo, è semplice: basta non uscire, mi percepisco insomma Domietta Hercolani.

Càpita però di andare a colazioni di lavoro oltre a gli early dinner e puntualmente succede un fattaccio dove mi si chiude ogni volta la vena e sono frustratissimo nel tenere un contegno educato, questa volta non perché discendente di Louis Francis Albert Victor Nicholas Mountbatten, ma piuttosto terrorizzato che mi piscino nel piatto in cucina per sfregio e per dispetto: è il momento in cui chiedo una birra. Non bevo vino, gli alcolici men che meno a parte un Pornstar Martini ogni morte di Governo e degli shottini di tequila d’estate per ridere. Il che mi riporta ad uno dei motivi per i quali non vado alle inaugurazioni e malvolentieri ai matrimoni: avete mai provato in quei luoghi a chiedere una birra? Ecco, è una questione di standing secondo la quale la birra non è elegante, come se un burino che ha fatto soldi l’altroieri e in maniera equivoca sboccia un Armand de Brignac brut rosé a Dubai diventi all’improvviso e per osmosi Lord Brummel.

Ma torniamo a Milano e a ogni suo ristoratore che sempre più si rifiuta di avere nel suo menù una normalissima lager cinque gradi industriale, ristoratore che evidentemente non è mai stato in Giappone dove la birra alla spina rigorosamente Asahi, Sapporo o Kirin, servita a 0,5 gradi centigradi accanto al shōchū o al sake, accompagna i sushi più buoni della terra. Prima di tutto fa una faccia da cazzo, poi dilata le narici come se odorasse puzze e dice: abbiamo delle ottime birre artigianali. E io dico: non ne avevo dubbi, sa, a me non piacciono tantissimo, e lui: è un birrificio buonissimo le assicuro mi darà ragione, porgendomi una lista di birre dai nomi bizzarri tanto quanto le note e i retrogusti che promettono al mio palato: mughetto rancido, pesca acida, rosa amara, figa appassita, mandorla smegmata. E’ come se uno ordinasse una Coca Cola e al ristorante ti dicano eh no caro mio, abbiamo solo la Coca Cola al rosmarino, all’acciuga e al friariello e pera. In genere scelgo quella birra pils o lager, insomma quella a cinque gradi, la bevo, fa schifo, il ristoratore torna chiedendomi com’è e io gli dico che è cattiva, poi gli attacco una pippa sulla necessità di avere nel suo locale una birra industriale, se si vergogna di una Nastro Azzurro o una Moretti va benissimo una Menabrea, la reputazione del locale sarà salva, senza contare che può continuare a spacciare le sue artigianali, che in genere sono più care e quindi ci sta che ci carichi un ricavo maggiore, a chi ci casca. Devo dire che esistono dei ristoranti cari che hanno birre normali nei loro menù: in genere sono locali che sono aperti da più di trent’anni, fuori dal giro delle mode, dove infatti puoi scorgere nel tavolo di fronte a te delle donne con le scarpe basse e le calze marroni che non hanno il telefonino sul tavolo e parlano a voce bassa e quando ti alzi ti sorridono trapanandoti con uno sguardo miope dunque educato.

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